Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo di Guglielmo Piombini. Ci eravamo fermati qui: “Nessuno, infine, avrebbe il diritto di costringere chicchessia a fare o pensare qualche cosa, anche in nome di principi “democratici” che spesso non sono altro che la negazione della libertà delle minoranze...”
Potete trovare qui la Prima parte
Aggiunge Rothbard: «Noi rifiutiamo definitivamente l’idea che la gente abbia bisogno di un tutore che la protegga da sè stessa e che le dica ciò che è bene e ciò che è male. In una società libertaria niente vieterebbe la droga, il gioco d’azzardo, la pornografia, la prostituzione, le deviazioni sessuali, tutte attività che non costituiscono delle aggressioni violente nei confronti degli altri. A differenza di altre correnti di pensiero, siano esse di sinistra o di destra, noi rifiutiamo di riconoscere allo Stato il diritto legale di fare ciò che verrebbe considerato illegale, immorale o criminale se fatto da qualcun altro. Le tasse, il servizio militare, la guerra...sono forme intollerabili di violenza con cui alcuni gruppi privilegiati impongono agli altri la loro concezione del mondo. Ciò che noi difendiamo è il diritto inalienabile e fondamentale di ciascuno alla protezione da ogni forma di aggressione esterna, provenga essa da individui privati o dallo Stato».
Queste citazioni dovrebbero dimostrare sufficientemente l’ingenerosità della accuse rivolte dagli anarchici di sinistra agli anarchici liberisti di essere reazionari o “poco preoccupati di altre libertà che non siano quelle del capitalismo”.
A ben guardare poi, l’anarco-capitalismo si rivela, sotto un certo punto di vista, più coerente dell’anarchismo collettivistico. Sappiamo che il liberalismo classico sosteneva lo Stato minimo, cioè assente nel suo lato strutturale (l’economia) e presente nel suo aspetto sovrastrutturale (la polizia, la giustizia). Lo Stato guardiano-notturno ideato dai liberali del secolo scorso si sarebbe dovuto limitare alla protezione delle persone e delle proprietà degli individui senza intervenire nella sfera economica. Anche l’anarchismo comunistico classico, in fin dei conti, propugna una sorta di Stato minimo, sorprendentemente invertito rispetto allo stato liberale ottocentesco, e cioè assente dal lato sovrastrutturale, ma presente nella sfera strutturale. Nell’anarco-comunismo lo “Stato” (o comunque una qualche autorità collettiva) si astiene dall’esercitare funzioni poliziesche o giudiziarie, ma amministra le ricchezze della collettività. Solo l’anarco-capitalismo, con la massima coerenza, esclude qualsiasi intervento di governo sia a livello strutturale che sovrastrutturale. E’ vero che gli anarco-comunisti potrebbero obiettare che le agenzie di protezione della società anarchico-capitalista svolgono di fatto funzioni “statali”. Vi sono però differenze sostanziali tra queste agenzie e il governo, in quanto esse non svolgono tale funzione monopolisticamente, nè hanno alcuna legittimazione a finanziarsi coercitivamente: esse si limitano a tutelare la persona e i beni di coloro che contrattualmente ne desiderano diventare clienti.
Ad ogni modo, lo scoglio teorico che l’anarchismo collettivistico non è ancora riuscito del tutto a superare è il seguente: in assenza di proprietà privata, dove dunque tutto appartiene a tutti, in che modo si decide sui criteri di amministrazione e distribuzione delle risorse comuni, se si rifiuta la regolamentazione di una qualche autorità pubblica? Le strade possibili sono due: la prima si basa sulla teoria, alquanto irrealistica e ingenua, dell’uomo naturaliter buono, una volta cambiate le istituzioni repressive sociali: in una società di questo tipo, si dice, gli uomini fraternamente e spontaneamente si dividerebbero i beni con equità e senza alcuna coazione.
In verità ipotesi di anarchia collettivista le possiamo ritrovare anche oggi in talune situazioni tipiche riguardanti la proprietà dei mari, dei fiumi, dei laghi, dell’atmosfera, delle spiagge, di alcune specie di animali in via di estinzione. Tutti questi beni si caratterizzano per l’assenza di diritti di proprietà privati su di essi e per la loro appartenenza alla collettività nel suo complesso. Posto che la regolamentazione statale risulta di fatto inesistente, inapplicabile o inapplicata, questi beni si trovano in uno stato giuridico di comunismo anarchico, in quanto tutti ne possono usufruire a piacimento, ma il risultato è totalmente e drammaticamente inefficiente.
Questi beni collettivi sono inquinati proprio perchè, essendo di tutti, nessuno ha interesse a sforzarsi per mantenerli puliti e in ordine. Il fatto che i mari appartengano a tutti spiega il progressivo spopolamento ittico: nessun pescatore ha interesse ad autolimitarsi nella quantità pescata, a fare investimenti di ripopolazione, o a dedicarsi a colture idriche, perchè non è detto che sarà lui a beneficiare di tali sforzi. La razzia rapida e indiscriminata, compiuta prima del sopraggiungere di altri pescatori, rappresenta inevitabilmente, in una situazione di comunismo anarchico dei mari, la condotta più razionale. Il comportamento dei pescatori diverrebbe molto più responsabile e socialmente benefico se ad essi fossero attribuiti, similmente ai contadini e agli allevatori, diritti di proprietà su determinate aree marittime o su determinati branchi di pesci. La sorveglianza dei proprietari costituirebbe anche un ottimo deterrente contro il disastroso inquinamento delle acque provocato, ad esempio, dalle petroliere (si è mai vista una fabbrica scaricare impunemente i propri rifiuti in un giardino o in un terreno privato altrui ?). Nei confronti degli oceani oggi ci troviamo nella stessa situazione in cui si trovava l’Uomo di Neandhertal rispetto al suo territorio: non abbiamo ancora compiuto la rivoluzione neolitica, quella che sostituì, ad un sistema economico preistorico basato sulla caccia e sulla raccolta dei frutti spontanei, altamente inefficiente e devastante per l’ambiente circostante, un sistema molto più civilizzato fondato sull’allevamento e l’agricoltura.
Le medesime conclusioni valgono per la scomparsa di altre specie animali: rischiano l’estinzione tutte e solo quelle specie animali di proprietà pubblica, massacrate dai bracconieri. Al contrario, bovini e suini non si estingueranno mai, malgrado l’altissimo consumo delle loro carni, perchè gli allevatori proprietari hanno tutto l’interesse a mantenere inalterato il valore futuro del proprio capitale. La diversa sorte capitata durante il secolo scorso negli Stati Uniti alle vacche (in proprietà privata) e ai bisonti (di proprietà collettiva), oggi pressoché scomparsi, dovrebbe essere d’esempio. Si può ricordare un altro caso significativo, meno noto ma più recente: mentre in Kenya gli elefanti, protetti nelle riserve statali, stanno oramai estinguendosi, nello Zimbabwe, dove si è scelto di attribuirli in proprietà alle tribù, il loro numero è notevolmente aumentato. In breve, è inquinato e va in rovina ciò che è di tutti, mentre i beni che appartengono a qualcuno vengono curati, migliorati e incrementati nel loro valore.
Rifiutando aprioristicamente la proprietà privata, la seconda via che gli anarchici collettivisti possono proporre per venire a capo e risolvere queste “tragedie dei beni collettivi”, è quella di attribuire un potere di regolamentazione delle risorse ad una qualche autorità pubblica. Tuttavia, se queste decisioni non sono prese all’unanimità, occorrerà decidere a maggioranza, ed ecco ricomparire il Leviatano statale.