Pubblichiamo l’ultima parte di questo saggio del ‘95 di Guglielmo Piombini, a cui abbiamo dedicato l’intera settimana. LABIRINTO è felice di ospitare testi del genere, che hanno anche aperto molte discussioni, altamente istruttive.
Le contraddizioni in cui si dibatte il pensiero anarchico-collettivista sono ben rese in un brano del romanzo “The Anarchists” del famoso anarchico John Henry MacKay, dove un’anarchico individualista insiste con un anarchico comunista perchè risponda a questa domanda: «“Nel sistema sociale che tu chiami “libero comunismo”, impediresti a individui di scambiarsi il loro lavoro mediante il loro mezzo di scambio? E inoltre: impediresti loro di occupare la terra per uso personale?”». Il romanzo continua: «Non era possibile aggirare il problema. Se avesse risposto “Sì”, avrebbe ammesso che la società ha diritto al controllo sull’individuo e avrebbe buttato a mare l’autonomia dell’individuo da lui sempre difesa con zelo; se, d’altro canto, avesse risposto “No!” avrebbe ammesso il diritto alla proprietà privata che aveva appena confutato con tanta enfasi... Allora rispose: “Nell’anarchia ogni gruppo di persone deve avere diritto di formare un’associazione volontaria, e di attuare così nella pratica le sue idee. E non posso neppure capire come uno possa essere secondo giustizia scacciato dalla terra e dalla casa che usa e occupa...ogni uomo serio deve dichiararsi: per il socialismo, e quindi per la forza e contro la libertà, o per l’anarchia, e quindi per la libertà e contro la forza”».
Gli anarchici che rifiutano questo dilemma ricadono inevitabilmente, come si è detto, nella teoria dell’uomo buono per natura. E qui l’anarchismo-liberista sembra segnare un’altro punto rispetto a quello comunista, non solo sotto il profilo della coerenza, per le ragioni sopraesposte, ma anche sotto quello del realismo, perchè per funzionare non pretende alcuna modifica della natura umana, non vuole creare l’uomo nuovo, com’è nella logica del gulag, e basa tutta la sua analisi sul paradigma scientifico, e non romantico, dell’homo oeconomicus, essenzialmente egoistico e razionale.
Gli anarchici socialisti dovrebbero quindi ripensare il proprio atteggiamento di condanna nei confronti della proprietà privata, riconoscendo il valore liberatorio per l’individuo del libero mercato, entro il quale noi esprimiamo la maggior parte delle nostre azioni e opzioni esistenziali quotidiane veramente autonome, cioè sottratte a controlli esterni. Libero mercato significa infatti sovranità degli individui in quanto consumatori. In un plebiscito ripetuto ogni giorno, dove ogni soldo dà diritto ad un voto, i consumatori decidono chi deve possedere e gestire le fabbriche, i negozi, le fattorie. Nel libero mercato la ricchezza può essere acquisita in un solo modo: servendo nel miglior modo possibile e a minor costo i bisogni della gente. Coloro che soddisfano i bisogni di un numero maggiore di persone ricevono più voti-denaro-di coloro che soddisfano il bisogno di un minor numero di persone. I capitalisti perdono immediatamente il loro denaro se lo investono in quelle attività che non soddisfano le esigenze del pubblico. Solo nel libero mercato dunque il controllo dei mezzi materiali di produzione è soggetto al controllo sociale, cioè alla conferma o alla revoca da parte dei consumatori, nel cui giudizio sono assolutamente sovrani.
Rifiutare il libero mercato significa dunque espropriare i consumatori di questo immenso potere di direzione della produzione, per conferirlo ad una qualche altra autorità, magari composta dai produttori stessi, i quali lo eserciterebbero discrezionalmente, prescindendo dai nostri gusti, dalle nostre preferenze, dalle nostre scelte (col rischio di ritrovarsi in un sistema pianificato simile a quello sovietico, nel quale i consumatori erano poco più che inermi supplici di fronte a produttori indifferenti non per cattiveria, ma perchè privi di qualsiasi incentivo economico ad assecondare le domande degli acquirenti).
Inutile aggiungere che, con tutta probabilità, in una società anarco-capitalista la povertà costituirebbe un problema molto minore di quanto non lo sia adesso, dato che lo sviluppo economico, non più frenato dalle intromissioni e dalle regolamentazioni governative, diverrebbe travolgente. Inoltre i sentimenti di solidarietà e aiuto reciproco si rivalutaterebbero e tornerebbero ad acquisire il loro autentico valore morale di scelte volontarie e personali. Oggi, dove l’assistenza è affidata a strutture burocratiche corrotte, inefficienti e impersonali, la nostra reazione davanti alla povertà è quella di dire “Perchè lo Stato non interviene ?”. Nella società veramente libera immaginata dagli anarchici liberisti non sarà più possibile lavarsi la coscienza in questo modo, nè si potrà imputare al “sistema” la causa di ogni problema: occorrerebbe invece agire direttamente, associandosi con altri uomini che abbiano intenti uguali ai nostri, senza poter delegare la soluzione dei problemi ad una qualche “macchina” esterna e coercitiva.
Nella società ideale anarchico-capitalista, si badi bene, il rispetto del principio di base della concorrenza sul mercato non implica nessuna imposizione e nessuna scelta a priori sul tipo di società (capitalistica, socialista, mutualistica, autogestionaria, comunista, religiosa...) da edificare: l’importante è creare una struttura di fondo in cui chiunque, sia capitalista, socialista, sostenitore del sistema mutualistico, autogestito, comunista, o religioso abbia la possibilità di sviluppare il suo modello in concorrenza con quello degli altri, senza costringere però nessuno a vivere in un tipo di società non desiderato. E la base di tutto ciò non può che essere il principio della libertà contrattuale e della proprietà privata, come già aveva riconosciuto, con la tipica onestà intellettuale che lo contraddistingueva, un grande socialista anarchico come Proudhon, il quale aveva rivisto le proprie idee sulla proprietà privata, riconoscendone l’indissolubile nesso con la libertà individuale: «Servire da contrappeso al potere publico, bilanciare lo Stato e in questo modo assicurare la libertà individuale: tale sarà, dunque, nel sistema politico la funzione principale della proprietà. Sopprimete questa funzione...imponetele (alla proprietà) condizioni e dichiaratela non cedibile e non divisibile: subito essa perde ogni sua forza e non conta più nulla; essa diventa un semplice beneficio: un possesso precario, una dipendenza dello Stato senza possibilità di azioni contrarie».
Sono questi gli interrogativi che gli anarchici-collettivisti, ai quali si deve riconoscere la correttezza delle loro critiche al totalitarismo statolatrico della dottrina marxista, non hanno sufficientemente approfondito. Un confronto con gli anarchici-capitalisti non potrà che essere fruttuoso.
Bibliografia
Ayn Rand, The Virtue of Selfishness, 1964.
“Lo Stato è un furto!”, intervista a Murray N. Rothbard contenuta in Guy Sorman, I veri pensatori del nostro tempo, 1990.
David Friedman, The Machinery of Freedom, 1973.
Murray N. Rothbard, For a new Liberty. The Libertarian Manifesto, 1973.
Riccardo Laconca, Democrazia, mercato, concorrenza, 1988.
John Henry Mackay, Gli anarchici, 1887.
Ludwig Von Mises, La mentalità anticapitalistica, 1956.
Pierre Joseph Proudhon, La teoria della proprietà, 1866